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Sei artisti a confronto

Sei Artisti a Confronto
Sei Artisti a Confronto

Mauro Bellucci | Angelo Bertoglio | Nicoletta Gatti | Davide Marega| Alexandra Matveeva | Julian Soardi

Sei Artisti a Confronto

Una mostra d'arte contemporanea. Nello studio di un artista. Curata da due artisti

ANGELO BERTOGLIO nasce a Cremona nel 1951. Dall’età di cinque anni si trasferisce a Pavia dove vive e lavora. Fin da ragazzo manifesta precoce interesse e attitudine per il disegno; frequenta il Liceo artistico prima e l’Accademia di Brera successivamente. Grazie a molteplici stimoli culturali, acquisisce una visione complessa dell’arte. Sceglie di dedicare il proprio interesse alla pittura, che lo impegna in un percorso solitario, ma produttivo che continua tuttora. A partire dagli anni Ottanta partecipa a mostre sia collettive che personali, dosandole con prudente consapevolezza critica.

“... Spirito colto e rigoroso, Bertoglio appartiene a quell’area sempre più circoscritta di artisti che osano ancora affidare ai classici strumenti della pittura la risonanza poetica dell’immagine, sognata e conquistata attraverso la fatalità dell’atto pittorico che sempre si rinnova senza mai indossare i panni della falsa attualità. Per questo orientamento di pensiero ciò che conta è la dimensione interiore dell’immagine, la contemplazione dello spazio come enigma che nessun altro mezzo può sostenere o illudere di poterlo fare. Del resto, il mestiere di pittore presuppone un destino che non ha altre verifiche se non quelle interne all’ossessione del proprio sguardo che analizza la macchina della pittura e si emoziona di fronte al mistero del visibile. In questo senso, il processo del dipingere è coscienza di un continuo passaggio del pensiero nel colore, è una verità soggettiva che non può essere esiliata dall’ansia frenetica dei nuovi strumenti di comunicazione. È colloquio con la profondità della storia che ritrova la sua voce nel presente, nella caparbia tensione a immaginare spazi possibili, perché sempre possibile è l’esperienza della pittura come intensità della visione poetica, lirico desiderio estatico, non solo estetico, della forma pura... La scelta di dialogare con le strutture della prospettiva classica è stata la base per elaborare nuovi impulsi formali, per dare peso a turbamenti e tentazioni che sono degni di un rapporto acuto, e per nulla scontato, con i vincoli della rappresentazione. Per assumere questa dimensione problematica Bertoglio trasforma il dato prospettico nel mistero costruttivo della scena metafisica, tiene in reciproca tensione la strutturalità delle forme e l’emozione del colore-luce che tocca punti inattesi, situazioni intriganti dove lo sguardo inverte la sua rotta, muovendosi da limpidi bagliori iperreali a lenti sprofondamenti nell’ombra. Dall’inquietudine di queste ragioni nasce il suo esperimento di pittore visionario, interessato a coinvolgere lo spettatore nella metafora teatrale della pittura che mette in scena i suoi artifici e le sue regole per contemplare un mondo carico di mistero, uno spazio disorientato dalle ombre. Per questo Bertoglio riflette sul valore perenne della luce come rivelazione della parte oscura della rappresentazione, conoscenza che si nutre di forme nascoste, spazi non detti, pieghe enigmatiche e lembi rivolti verso l’indicibile, segni che cercano di varcare i limiti stabili della visione stessa. Uno dei caratteri di questa visione è infatti quello di creare contrappesi di volumi in bilico, astratte fissità del colore inserite in mutevoli piani di lettura che si mostrano serrati davanti al lettore. Egli vorrebbe superarne il perimetro, rispondere alle sollecitazioni mentali che quello spazio lascia intuire, entrare nel racconto segreto dell’immagine attraverso ragioni non dissimili da quelle messe in atto dall’artista... Per Bertoglio il valore della contemplazione si identifica nella costruzione di una metafisica spaziale dove la realtà delle forme comprende anche il senso dell’assenza, vale a dire la compresenza di elementi astratti (ritmi di piani che si sovrappongono), di atmosfere impalpabili (cieli, terre e vuoti d’aria) e di risonanze che coincidono con le penombre dello sguardo (margini taglienti, perimetri ambivalenti, bordi e ripiegamenti). Tale è la sensazione che si sprigiona in alcune opere di maggior impatto costruttivo dove la plasticità dei piani pittorici esprime un ritmo segnato da lievi inclinazioni, da slittamenti di equilibrio e, soprattutto, da eventi di luce che rompono la soglia del monocromo e del monocorde... Dopo i sentieri misteriosi della luce e i riflessi precari del visibile, altre realtà vengono incontro all’ansia creativa di Bertoglio, sono sempre visioni dove il colore si fonde nel sogno di un luogo senza tempo, l’angelo della pittura ha superato il peso delle cose e ci parla ancora di immagini sospese, di spazi infiniti”. (Da Scene contemplate di luce, 2005, Claudio Cerritelli)

MAURO BELLUCCI nasce nel 1959 a Voghera, città nella quale risiede e lavora tuttora.

Dopo studi linguistici ed una tesi di laurea in lessicografia giapponese presso l’Università di Pavia, si è dedicato per alcuni anni alla pratica della calligrafia estremo-orientale classica. Partendo da queste basi, alle quali si sono aggiunte negli anni le frequentazioni di ambiti culturali legati all’estetica orientale, in particolare quella giapponese, si è poi dedicato a mediare queste esperienze con una visione ed un gusto più vicini alla propria matrice occidentale.

Nei suoi lavori si avvale della tecnica del collage su tela o in alcuni casi su ferro e legno, declinata in svariate tipologie di utilizzo dei materiali di base. Il procedimento prevede l’utilizzo del sumi, inchiostro giapponese usato nella calligrafia orientale, e della carta nepalese fatta a mano, un tipo di carta dalla struttura grezza e imperfetta, la cui consistenza diventa ideale per ottenere le sfumature di nero. Le opere di Bellucci sono caratterizzate da sovrapposizioni di elementi di carta di vario tipo tagliati a filo d’acqua (tecnica di taglio orientale che lascia i contorni ammorbiditi e sfumati), oppure strisce di carta dipinte con varie gradazioni di grigio e nero disposte il più delle volte in verticale e in parallelo, rifacendosi in questo ai principi di base dell’estetica giapponese dell’iki. In certi casi usa elementi modulari con impressioni in nero da matrici di legno e altri materiali naturali, giocando a volte sul semplice effetto del bordo della carta bruciato con incenso per ottenere un segno sottilissimo, quasi impalpabile. L’utilizzo del collage nei lavori di Bellucci è anche da intendersi come ricerca di quegli aspetti tridimensionali ottenuti dai giochi di luce che la trasparenza della carta produce, come una sorta di dialogo tra pieni e vuoti che s’ispira ai concetti estetici della pittura zen e che caratterizza la figurazione proposta dall’artista. Bellucci procede verso un’accumulazione di segni oppure al contrario ad una riduzione di essi ai minimi termini, alla singola linea o alla singola sfumatura, riuscendo a far coincidere il suo stile, così originale per la cultura occidentale, ai concetti di equilibrio e semplicità tipici dell’estetica giapponese. I suoi lavori sono unici e irripetibili: ogni segno, ogni immagine, differisce dalle altre nei dettagli. La sua è un’arte in tensione. Tensione tra l’unicità del segno e la sua replica, tra spazio e non spazio inteso però come intensa e nuova dimensione. A contraddistinguere i suoi lavori è l’uso di un sigillo rosso che, secondo la tradizione della calligrafia estremo-orientale, è inserito all’interno dell’opera e parte della stessa. Il sigillo di pietra, volutamente non inciso con ideogrammi ma lasciato allo stato grezzo con leggeri interventi di bulino, sostituisce così la tradizionale firma dell’artista e diventa una sorta di non- firma, no-logo che diventa la cifra stilistica dell’artista. Lo stile di Mauro Bellucci propone soluzioni costruite con un rigore che potremmo anche credere imprevedibile, dando vita a una precisa, limpida e pacifica armonia. Le opere di Mauro Bellucci sono state esposte in diverse mostre personali e collettive. (© ESH Gallery Milano)

NICOLETTA GATTI nasce nel 1959 dal pittore tortonese Umberto dal quale eredita la passione per la pittura e per l’arte in generale. Nel 1998 frequenta a Milano l’Accademia delle Arti Applicate dell’Arch. Skoff diplomandosi poi con formazione architettonica.

La necessità, da sempre latente, di sporcarsi le mani con il colore ad olio si manifesta solo nel 2008. Frequenta quindi un corso di pittura alla scuola d’arte Ar.vi.ma di Pavia, dove accanto alla pittrice Monica Anselmi mette a punto gli insegnamenti tecnici già respirati in passato presso lo studio del padre. Inizia a studiare attraverso i testi di Itten il comportamento del colore, ad osservarne accuratamente le sue singole modalità di espressione, a cogliere le corrispondenze tra colori primari e secondari, tra toni caldi e freddi, per poter sviluppare autonomamente un suo percorso. Si iscrive quindi al corso di Cromatologia tenuto dall’artista Marco Casentini all’Accademia di Brera di Milano dove presenta le sue prime opere. La ricerca dell’equilibrio cromatico diventa l’elemento fondamentale e, facendo un percorso inverso, il disegno è dettato dai colori che creano la vera struttura del dipinto. Gli anni dal 2000 al 2015 sono anni di sperimentazione, il suo “modus operandi” è soggetto a continue trasformazioni attraverso le quali va strutturando un suo linguaggio pittorico. I suoi ultimi lavori trattano di “ tracciati “ , di “ macchie” e di “ reticoli”.

DAVIDE MAREGA é nato nel 1988 a Voghera, città dove attualmente vive e lavora. Si è laureato in pittura con lode all’Accademia di Belle arti di Brera e successivamente ha conseguito un master in Graphic Design. Vincitore del premio Young Talent 2015 all’Affordable Art Fair di Milano, la sua biografia artistica conta molteplici esposizioni importanti come la mostra collettiva “Second Skin” a Palazzo della Triennale di Milano, la partecipazione al Premio Nazionale delle Arti nel 2013 e la mostra personale “Orizzonti” nel 2017.

"Un clima di misurata sospensione dello spazio caratterizza i recenti dipinti di Davide Marega che, dopo gli anni di formazione all’Accademia di Brera, sta affrontando con serietà e rigore il tormento del fare pittura, esperienza parallela all’attività di restauratore. L’artista usa l’olio su carta che - nelle grandi dimensioni - viene in seguito foderata per stabilizzare il corpo del colore e il suo pieno assorbimento, diverso è il trattamento nelle piccole dimensioni dove la consistenza della materia mantiene rigida e inalterabile la superficie. Attraverso successive velature, il pittore ottiene la luminosa profondità dell’immagine, l’ampia decantazione del colore, scegliendo – volta per volta- di affidarsi a un’atmosfera lucida oppure opaca. Con metodo disciplinato Marega affronta lo spazio del paesaggio come rivelazione degli stati d’animo che esprimono le risonanze cromatiche e le loro corrispondenze sensoriali. Gli orizzonti sono talvolta delineati e visibili, in altri casi affidati a minimi sfioramenti, graduali mutazioni che danno corpo al vuoto con soffi di luce e aliti d’aria. Lavorando sul valore delle stratificazioni, Marega ama mettere e togliere colore per sensibilizzare l’epidermide dell’immagine lasciando affiorare tracce d’ombra e brevi bagliori, lievi sonorità da percepire lentamente con gli occhi della contemplazione. In questa mostra sono documentati gli esiti dell’ultimo periodo di lavoro, paesaggi immaginari dove l’orizzonte è evocato come misura sottile e impalpabile che trattiene le trasmutazioni del colore, sopra e sotto la linea che s’interpone tra la terra e il cielo, tra il cielo e l’acqua. Il paesaggio è apparizione senza limiti, luogo d’emanazione di sensazioni cromatiche che la memoria registra e trasforma nella pienezza della luce: la pittura dialoga con il mistero dell’ombra, e questo avviene soprattutto quando tutto si fonde nella dimensione del notturno. Tra le dominanti luminose, il rosso interpreta l’ardore calante del tramonto, l’azzurro accoglie lo schermo trasparente dei pensieri, il blu capta i riflessi segreti del mare, mentre il verde è denso e vibrante per evocare le voci della natura. Quando il giallo contrasta con il viola, le vibrazioni debordano oltre i perimetri stabiliti e il paesaggio si disgrega animando l’immagine con visibili striature, lievi cangianze della luce. In questo senso, Marega è interessato al farsi della materia, al processo che dà sostanza al volto sospeso del paesaggio, sensazione che sconfina nell’indeterminato stupore della totalità, visione vissuta come viaggio oltre l’orizzonte, tensione del colore in cerca dell’altrove". (Orizzonti dell'Altrove, Claudio Cerritelli)

ALEXANDRA MATVEEVA nasce a Kaliningrad, Russia, nel 1988. All'età di 11 anni si trasferisce in Italia dove, dopo gli studi linguistici, decide di seguire la sua inclinazione naturale verso l'arte frequentando l'Accademia di Belle Arti di Brera. Il suo curriculum artistico conta non molte, ma ben misurate mostre personali e collettive. Il suo lavoro più recente trova origine nella fotografia usata non come fine ultimo ma come il punto di partenza per realizzare le proprie opere. L’artista sceglie i suoi soggetti - sia che si tratti di donne o corpi femminili, sia di uova come nel caso dell'opera in mostra - e li dispone secondo un progetto ben definito. Per Matveeva la fotografia è un mezzo alternativo per raggiungere la dimensione pittorica, quindi l’intervento manuale sulle foto stampate diventa fondamentale per il raggiungimento del risultato desiderato ancora prima dello scatto. L’opera esposta nasce da due scatti, due immagini dello stesso uovo, nella sua condizione originale e in quella della rottura, frammentazione dello stesso. Le due forme vengono successivamente moltiplicate e trattate con la foglia d’oro diventando esse stesse dei frammenti di un insieme più grande. I frammenti vengono infine ricomposti, incollati su un unico supporto. "Cracking Matrix” - così il titolo dell’opera - cioè "matrice che si frammenta”, rappresenta un processo infinito dove l’integrità della forma, in questo caso dell’uovo, è predestinata a disgregarsi, ma anche a ricomporsi. L’estensione sconfinata nello spazio trova un equilibrio formale grazie al limite oggettivo del supporto che tiene insieme l’opera. Il velo dorato che fa intravedere la successione perpetua, impreziosisce ogni passaggio, rendendolo unico e irripetibile.

JULIAN SOARDI è nato Putignano (BA) nel 1989. Si è laureato con lode all’Accademia di Belle Arti di Brera. Attualmente vive e lavora a Milano. Artista e performer, ha partecipato a numerose mostre collettive e personali e preso parte a spettacoli teatrali. Di lui hanno scritto numerosi artisti e critici d’arte.

“I suoi attuali orientamenti creativi sono rivolti a stabilire le mutevoli connessioni tra differenti dimensioni di ricerca, dalla grafica alla fotografia, dalla video arte alle contaminazioni multimediali. In tal senso, Soardi persegue una visione sinestetica della comunicazione totale che coinvolge sia i valori strutturali della percezione visiva sie le possibilità immaginative che scaturiscono dall’analisi dei molteplici aspetti della realtà contemporanea. La sua esplorazione del rapporto tra scrittura e immagine si avvale di una crescente capacità di elaborazione tecnica che coinvolge in un unico sistema espressivo: parole, suoni, forme tattili, oggetti fisici e virtuali, segni e tracce in grado di restituire la complessità comunicativa del mondo attuale nel suo imprevedibile divenire”. (Claudio Cerritelli)

“Il suo lavoro pone l’artista come artefice di una connessione tra arbitrario della propria esistenza e la necessità di fare che gli consente di ritornare all’osservazione dei fenomeni, scoprendone i nessi esistenziali che li costituiscono. Un’operazione che assente alla vita delle cose senza subirne il peso, senza rimanere schiacciati, ma percependo e facendo propri la pluralità delle forze che agiscono, siano essi evidenti o celate. Si tratta di un’attività dell’esperienza, così come il vedere può essere inteso come un’attività del pensiero: che determina sia una visione della realtà secondo un preciso punto di vista, sia l’azione su di essa, in un agire specifico. Non quindi un puro vedere, ma un guardare per fare, teso ad acquisire uno sguardo altro, e a rimodularsi secondo esso. Per mezzo del fare della materia stessa, labile ed effimera, come il ghiaccio, come l’acqua, come la scrittura sospesa in uno spazio virtuale, è possibile superare la disumanizzazione del soggetto cui corrisponde un’umanizzazione del reale, e l’impossibiltà di scorgelo dall’interno di schemi precostituiti, rivelandone, di fatto, la problematicità. Julian Soardi pratica una sorta di addestramento. Un esercizio di rigore, in primo luogo verso se stesso, che gli consente di trasformarsi, di creare uno spazio artistico peculiare e sempre nuovo, alla ricerca della forma di espressione più appropiata del ridurre la distanza tra se stesso e il reale.” (Maria Cristina Galli)